Se un batterio avesse le dimensioni di un elefante, un virus avrebbe la stazza di una jena. La differenza non si ferma qui. Il ‘corpo’ di un batterio consiste di una cellula, che è l’unità minima di ‘vita’ sul Pianeta. Esso, dunque, è autosufficiente: si nutre, si riproduce e… insomma, vive. Non ha necessariamente bisogno di un ospite, per poter esistere. Anzi, si adatta facilmente, riuscendo a cavarsela in condizioni che sarebbero proibitive per qualsiasi essere eucariota. Ma predilige vivere in simbiosi con altri organismi, riuscendo a diventare per essi indispensabile, avendo caratteristiche metaboliche efficienti. Dei miei settanta chilogrammi di peso, giusto per rendere l’idea, due sono dovuti alle colonie di batteri con le quali convivo, indispensabili alla mia attività digestiva e finanche per la regolazione del tono del mio umore e della qualità dei miei pensieri: “Sum ergo cogito”, mi verrebbe da dire, ribaltando il motto cartesiano. Siamo colonie, più che singole unità, e questo ci arricchisce. Che ci piaccia o no, il ‘nazionalismo’ esasperato non è consentito neanche a livello di individui.
Certo, esistono batteri che ci sono ostili (detti ‘patogeni’), e li combattiamo utilizzando gli antibiotici. Polemos (la guerra) è madre di tutte le cose, predicava Eraclito tanto tempo fa. Purtroppo dalla guerra non si sfugge.
I virus, invece… beh, loro sono tutt’altra cosa. Un virus (la sua etimologia porta a ‘veleno’) è un essere mancato. Un parassita della peggior specie, insomma. È costituito da frammenti di DNA o di RNA racchiusi nella capside (una ‘buccia’ fatta di proteine, qualche volta contenuta in una membrana di grasso, detta ‘pericaspide’). Un virus necessita di un ospite per potersi nutrire e riprodurre. Da solo non c’è la fa, a sopravvivere: teme il caldo e resiste poco su supporti senza un’ ‘anima’.
Il covid-19 non fa eccezione. Il suo nome deriva da ‘co’ che sta per ‘corona’, ‘vi’ che sta per ‘virus’ e ‘d’ che sta per ‘disease’, ovvero ‘mallattia’. Il numero ‘19’, evidentemente, denota l’anno della sua comparsa nella storia della specie umana. I virus arrivano a noi a causa del cosiddetto ‘spill over’, che denota un salto dell’agente virale da una specie all’altra. Questo ‘veleno’ potrebbe esserci arrivato da un pipistrello o da un serpente. Anche la forma geometrica di un virus ha un che di misterioso: spiraleggiante, icosaedrica, oppure, come quello che sta attanagliando il mondo, a mo’ di corona.
Per fortuna, hanno un ‘tallone d’Achille’, i virus. Anzi due. Il primo è che senza il supporto di una vita vera non riescono a nutrirsi e nemmeno a replicarsi. Il secondo è che l’organismo che essi attaccano può essere allenato a combatterli e sconfiggerli.
Come sfruttarli, questi due vantaggi?
Facile. L’uno limitando i contatti fra i potenziali ospiti, quando esso attacca. La ragione è dovuta al fatto che un virus non resiste a lungo alle alte temperature, a meno che queste non siano quelle interne a un corpo (sulle superfici in genere e sulle mani resiste per un tempo dell’ordine delle decine di minuti). L’altro ha a che fare con quel rimedio preventivo noto con il nome di ‘vaccino’, il quale, in tempi fortunati, potrebbe non essere apprezzato (di recente è stato addirittura demonizzato) a causa di un male di natura intellettiva che ha il nome di ‘ignoranza’.
Se dovessi definire batteri e virus attraverso una metafora linguistica, non avrei dubbi su quale scegliere. Un batterio è come un pregiudizio: può far male o essere indispensabile alla sopravvivenza della specie. Un virus, invece, assomiglia a quella cosa astratta che chiamiamo ‘odio’: ha bisogno di interazione, per poter vincere: il buon senso e il silenzio lo annientano facilmente.
Spero che il messaggio veicolato fra le righe sia chiaro. Il confine fra l’eroismo e l’incoscienza è sottile. E quello dell’eroismo mi pare che sia finito già da un pezzo.
Spero anche che da questa esperienza il mondo emerga con un altro senno.
]]>