CRONACA DI UNA PANDEMIA – ITALIA, 20 APRILE 2020

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Veronica Menchise, Vigevano,19:00 – “Tuyo”

Matera, ore 15:39 – Angelo Soro

Bollettino di guerra nr 5

Penso: sarà un altro giorno in cui nessuno mi chiederà “dove stai?”, “a che ora ci vediamo?” e nessuno mi dirà “sei in ritardo!”.
Mi sono alzato dal letto e ho attraversato la camera, debolmente illuminata dalla luce che filtrava dalla finestra.

Sono entrato nel soggiorno e ho alzato la tapparella. La luce mi ha fatto serrare gli occhi. Fuori c’è il verde brillante del prato e delle siepi. Nello sfondo, appannato per via degli occhi ancora socchiusi, il lenzuolo del vicino di casa istoriato con un “andrà tutto bene”, scritto con una serie di cuoricini colorati.

Ho varcato la porta di cucina e ho alzato la tapparella. La finestra è esposta a est e il riflesso del sole sul pavimento del patio mi abbaglia. Sono rimasto fermo per un po’, come una lepre che attraversa la strada di notte.

Sul tavolo al centro della stanza ci sono lo smartphone e il telecomando della tv. Decido di accendere la tv.

Mentre preparo la colazione, in sottofondo la voce di una giornalista snocciola numeri e statistiche: è un brusio incomprensibile.

Preparo il caffè.

Ancora numeri in sottofondo, poi la voce di un noto personaggio politico. Spengo. Non ho voglia di sentire stronzate, alle sette del mattino non sono ancora pronto. Forse più tardi. Forse.

Sulla soglia della cucina compare un fantasma in pigiama, con i capelli ritti in testa. Sbadiglia. Mi si avvicina e mi bacia. Ha ancora gli occhi chiusi.

Si siede, accende il televisore e si spalma sulla tavola appoggiando la testa sulle braccia conserte.

Spengo nuovamente la tv. Non sono ancora pronto per le stronzate, grazie.

Tazzine, cucchiaini, ciotole, piattini, la zuccheriera, fette di pane da tostare, marmellata, yogurt.

Sposto la sonnambula di qualche centimetro e sistemo tutto a tavola per la colazione.

Infilo il pane nel tostapane.

Mentre sono intento a sorvegliare la caffettiera, il televisore prende nuovamente vita. Alzo lo sguardo e il fantasma ha gli occhi aperti e fissa lo schermo, dove aleggiano due zombie che ci fissano muti. In sottofondo una giornalista parla quasi senza respirare. Capisco che li incalza sul solito argomento. Seguo con distacco. Pare che la ripartenza dovrà essere lenta come la marmellata. No, corregge uno dei due, partiremo come fette di pane in un tostapane. Sì, ma i numeri non permettono. I numeri sono falsi, dobbiamo ripartire prima che il caffè sia pronto. Non si può, troppo pericoloso e lo yogurt non sopravvivrebbe. Guardo la confezione dello yogurt e la scadenza è ben lontana. Sopravvivrà. Sopravvivremo.

In questo periodo di tempo sospeso, di time-out, ho l’impressione di vivere in un bozzolo, perciò stamattina mi è tornata alla mente una frase di Lao Zi,  filosofo e scrittore cinese del VI secolo a.C., nonché fondatore del taoismo.

La frase è pressappoco questa: “quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”.

Potenza, ore 8:00 . Ida Leone

I bambini da 0 a 3 anni scrivono il copione che poi reciteranno tutta la vita. Lo sostiene Sigmund Freud, ed è una spiegazione che mi ha sempre colpito molto. I nostri vecchi, quelli che adesso hanno intorno agli 80 anni, in quella delicatissima età hanno vissuto la guerra. La paura, l’angoscia assorbita magari attraverso i loro genitori, le bombe, le sirene di allarme, il buio dell’oscuramento. Non è da sottovalutare quanto il parlare di quarantena, guerra e allarme in questi giorni possa avere disseppellito traumi infantili, rendendoli ancora più spaventati e indifesi, soprattutto se malati. Se avete persone anziane a casa, abbracciatele e dite loro che non hanno nulla da temere. Dite loro che sono a casa, la loro casa, e non c’è posto più sicuro di quello. Dite loro che li proteggerete da qualunque cosa.

Io sto facendo così, con la mia mamma che si tira le coperte fin sul naso, come a proteggersi dai mostri, e con il mio papà, che all’imbrunire sbarra tutte le tapparelle di casa, come a lasciare fuori la paura.

I nostri vecchietti bambini.

Potenza, ore 9:28 – Claudio Elliott

Uccelli e domande

Per non sembrare pigro (condizione che invece adoro, tanto che di fatto sono proprio sfaticato), e per nascondere la mia indolenza odierna, decido di non uscire con Thai e di non incontrare i tre agenti che pattugliano la zona nei pressi di casa. Se saranno loro a autoinvitarsi per il caffè: benvenuti. Tra l’altro mia moglie è andata a lavorare e quindi Gianfranco non può farle gli occhi dolci con la scusa della tazzina fumante.

Il nostro risveglio, in questa stagione dell’anno, e nonostante il virus, è un chiacchiericcio senza requie di centinaia e centinaia di uccellini che popolano gli alberi e le siepi su cui si affacciano le nostre finestre. Un concerto, direbbe qualcuno dall’animo romantico. In realtà è un parlottio intenso, per niente musicale però pieno di vita.

Questo cicaleccio aumenta di volume quando mi vedono, eppure non assomiglio a San Francesco. Loro sanno che ogni mattina cospargo il balcone del mio studiolo e tutta la zona circostante di becchime: che ci sia il sole o la pioggia o la neve, loro vedono che la mia mano s’introduce nella busta gialla e ne esce subito dopo ricca di semi, che sparpaglio con generosità. Aspettano che mi allontani e poi iniziano il pasto. Tra i piccoli passeri o i fringuelli o i pettirossi ogni tanto compaiono un paio di transatlantici, chiamati piccioni o colombi, che dominano la zona dall’alto dei loro dieci centimetri di altezza, ma i piccoletti non se ne curano e continuano a beccare.

Abbiamo sistemato alcune casette proprio per loro qui e là, ma non sappiamo se mai le abbiano utilizzate: sanno farseli da soli, i nidi, e magari le snobbano.

E qui mi viene in mente la prima domanda oziosa: gli uccelli snobbano?

Poi, osservando un palazzo tipo alveare che domina la vallata, mi viene la seconda domanda: nei condomini nascono mai i bambini?

Visto che ci sono mi domando: ma negli oroscopi per il 2020, quelli che vengono stilati e venduti a inizio anno dai furbastri, in cui c’è scritto che arriveranno soldi, fortuna e amore, qualcuno ha previsto la pandemia? Controllare, prego.

Altra domanda fondamentale, che mi faccio da anni: perché la pizza, che è rotonda, viene consegnata in scatole quadrate?

Ultima domanda: ma non è meglio che esca con il cane invece di scrivere queste scemenze?

Thai è d’accordo.

Potenza, ore 10:00, Annamaria

Cadute libere in sonno, risvegli improvvisi, i contagiati della sera, le mani giunte, i morti, le mani sugli occhi. I falsi miti, l’amuchina, il lievito madre, anche istantaneo va bene. La fila ovunque. Ti guardo perplessa, non ti sfioro. Chi è l’ultimo? I primi non ci sono mai. Dieci minuti di percorrenza, troppo pochi per pensare, andamento lento, troppo lento. Si prega di scorrere e mantenere almeno un metro di distanza. Non toccarmi, ma ti sento. Disinfetta le mani, apri, prendi, riponi, disinfetta le mani. Ti voglio bene, anche io. Mi manchi, anche tu, disinfetta il cuore. Ricordi che affiorano, speranze pure. Le vecchie foto, le scarpe nuove, i biglietti di auguri, quelli passati. La lista della spesa, è finita la farina, anche la candeggina. Cosa mangiamo? Cosa fate? Mi mancate. Videochiamata disconnessa della sera: dagli occhi al cuore, il suono delle voci, il cuore che batte, ancora un po’, resisti. Mascherine in cotone, sorrisi sbiaditi, sbadigli, il film delude, il libro non scorre, la pizza lievita, il ciambellone appena sfornato. Il sonno del pomeriggio, l’estate alle porte, il cane che ronfa. Le chiamate attese, le serie finite, le serrande abbassate, la polvere mossa, l’odore di pulito, l’ammorbidente sulle lenzuola, lo sgomento improvviso. L’ erba che cresce, i capelli arruffati, lo smalto mai steso, il vestito nell’ armadio, l’armadio in ordine e il cuore in subbuglio. Ti penso, anche io. Immenso pensare, infinito restare a guardare cosa sarà, con il naso in sù, proprio come i bambini alla finestra che appannano i vetri aspettando Natale. Ma quale sarà la fase 2 dell’anima? Forse Amare di più, magari meglio, partendo da sé. Forse non ricercare quella normalità scaduta come un panetto di lievito in frigo da giorni, di cui, volendo, si può fare anche a meno. Non posso fare a meno di tornare a fare ed essere, insieme, di sentire emozioni sottopelle e condividere chi siamo. Di ascoltare e comprendere, di partecipare e crescere, di ridere a crepapelle, piangere e gioire, ballare e stupirmi, stare e andare, fronteggiare, attraversare, essere e parlare in compagnia. Nessuno può essere solo. Siamo esseri complessi, a tratti solitari, talvolta piegati sulle nostre brutture ma meravigliosamente affini, di necessaria appartenenza, l’uno fatalmente incastrato nell’altro, in questo viaggio in cui non c’è guida migliore di chi è come noi.

Parma 14.36 Cristina Cogoi 

Lacrime di dolore

si mescolarono a lacrime di gioia 

Le ultime confortarono  le prime 

Le prime, segnate dalla vita

temettero per le ultime,

 ma come affluenti si unirono, 

senza paura e in un’unica potente lacrima sfociarono in quel presente così carico di dolore e di bellezza mescolandosi alla pioggia che inesorabile continuo’ a cadere. 

Genzano di Lucania, ore 15:55 – Gianrocco Guerriero

Ci pensa il clima a creare il movimento che manca alle nostre vite. Ieri c’era il sole e già da stanotte pioviggina. Sono andato a letto che era passata la mezzanotte. Preoccupato. La gattina non era rientrata. Mai accaduto, in sei mesi, da quando fa parte della famiglia. Sono uscito con la torcia in giardino a cercarla ma non c’era. Intorno alle 4:30 mi sono svegliato e ho fatto un altro giro. Niente. Infine stamattina ho riaperto la porta, ho svoltato l’angolo, ho urlato ancora una volta il suo nome, quasi rassegnato, e l’ho vista corrermi incontro. Mi batteva il cuore per la gioia. Era tutta bagnata. È entrata dentro. L’ho avvolta in uno straccio e l’ho asciugata, mentre le bambine saltavano dalla gioia. In casa è tornata la normalità.

Cos’è dunque la normalità? mi sono chiesto. Non è stato difficile darmi una risposta: “normalità” è quando le cose cambiano – perché di cambiare cambiano, questo è inevitabile – in maniera talmente lenta da dare il adattarsi a esse senza alcuno sforzo cognitivo: ovvero, a voler usare la precisione del linguaggio matematico, quando nel grafico vita-tempo non ci sono punti di discontinuità troppo marcati.

È in questo senso che stiamo vivendo una situazione anomala: tutti, in ogni luogo del Pianeta, e tanto più anomala quanto più il sonno della normalità era divendato profondo e rassicurante. Adesso stiamo ad aspettare (e a sperare, soprattutto) che “il gatto” torni. Mi auguro cambiato pure lui. Perché le discontinuità cambiano, sempre, e noi in questo frangente abbiamo la possibilità di scegliere come continuare, forse per la prima volta nella Storia tutti insieme in tutto il mondo.

Villa d’Agri, ore 13:00 – Nuario Fortunato

ECCE HOMO

Oggi è una giornata uggiosa, di quelle che mi incupiscono un po’. Sono stato sempre leggermente metereopatico io. Mi affaccio malinconicamente al balcone. Cerco di immaginare un cielo meno grigio e la fine di questa pioggia tanto sottile quanto incessante. I vetri mi restituiscono un me opacizzato, nelle forme e nell’animo. Ci sono gesti semplici che ci riportano con la mente all’infanzia e al suo tenero candore.

La mia attenzione, però, viene richiamata dal dramma dell’umanità e dalle sue derive. Tutto sembra essere diventato incredibilmente un’urgenza!Avverto, al di là del vetro, come un urlo di voce comune. Un grido d’aiuto per niente trascurabile. Un urlo che risuona di terra in terra, di cui ognuno di noi si fa, con vari strumenti e attraverso le forme più complici, portatore. Che sia un articolo, uno scritto, un post, un componimento, un diario, tutti noi cerchiamo di costruire una rete di comunicazione, un ponte di dialogo. Una forma di relazione gratuita, fatta da un sentire comune che travalica i confini di ogni differenza.

E’ il linguaggio comune dell’anima che sospira e che ci ispira. Un linguaggio universale che rivela la vera natura dell’uomo. Ecce Homo! Ecco l’uomo! L’uomo ‘sfregiato’, sfigurato, impaurito, minacciato. L’uomo sgomento, angosciato, fragile, atterrito, caduto, braccato. L’uomo delle contraddizioni che oggi dimentica le lotte di potere, le guerre e le loro violenze. L’uomo dello sconfinato egoismo.

Ecce Homo! L’uomo sfigurato che si guarda nello specchio deformante dell’egoismo individuale, dell’individualismo estremizzato e assolutizzante. E’ proprio quando siamo inchiodati e obbligati a guardare la nostra immagine riflessa che acquisiamo una coscienza. Ed è dal profondo della coscienza che prende forma la sete di rivolta, l’invito timido ma perentorio a capovolgere la logica del tempo e della storia, a sovvertire la logica della sopraffazione che è separazione da sé.

E’ da questa coscienza che ci si riscopre tremendamente umani e, dunque, fratelli. Fratelli in un percorso che conduce sulla strada della responsabilità dell’umanizzazione e dei suoi linguaggi universali. Ecce Homo! Non si abbia paura.

Potenza , ore 18 – Antonio Califano

È arrivata la pioggia, non so se è meglio o peggio, devo rinunciare alla mia passeggiata giornaliera, mi infastidisce questo grigiore che è calato su tutto. Sono grigi anche i miei pensieri, avverto una confusione che mi spaventa, un uso sbagliato delle parole, si dice tutto e poi il suo contrario, la comunicazione è un apodittico esercizio di false sicurezze ad assetto variabile, siamo immersi in un universo di informazioni inutili, il rapporto con la nostra realtà negata è mediato da un esercizio di banalità e finzioni. Ho visto un servizio giornalistico in cui si costruiva un rapporto di causa ed effetto, inesistente, tra un una rapina ad un vecchietto e la protesta di un gruppo di giovani anarchici di un quartiere di Torino, facendo passare una protesta per la limitazione delle libertà in una supposta difesa degli autori della rapina con violenze e relativi arresti, un falso clamoroso suffragato da un filmato montato ad arte. In quasi due mesi hanno abbassato i nostri anticorpi nei confronti della limitazione delle libertà, ci stanno costruendo addosso un modello di società a libertà limitata “per il nostro bene” giocando sulla nostra paura della morte. Nulla sarà come prima, lo so, sono il primo a non volerlo ma non voglio neanche che tutto sia peggio di prima. Giochiamo con la tecnologia osannando la grandezza dell’educazione a distanza, qualcuno comincia a pensare che si può anche vivere senza aprire le scuole (a che servono poi gli insegnanti?) ma intanto si aprono le fabbriche anzi si scopre che proprio lì, “nel ventre della bestia”, più della metà non ha proprio chiuso. A nessuno viene in mente che ci possa essere un rapporto con la abnorme diffusione del virus nel triangolo industriale? Pensate che cretino che sono, inverto completamente le priorità: penso che le fabbriche, soprattutto quelle non essenziali, non vadano aperte dove c’è ancora pericolo mentre le scuole bisogna cominciare ad aprirle, come stanno facendo nel nord Europa, con le dovute precauzioni, col rispetto delle regole a cominciare dai posti dove il contagio è basso. Ci dicono che i nonni non devono aver rapporto con i nipoti, perché il rischio è troppo grande, e poi dal 4 Maggio si preparano ad aprire i luoghi di lavoro e i genitori dovranno chiedere ai nonni di tenere i nipoti. Si, il grigiore di questa giornata mi è sceso dentro, la retorica del siamo tutti sulla stessa barca mi infastidisce e se nei prossimi giorni apro la finestra non sarà per suonare il sassofono allegramente, come un deficiente, quei giorni non esistono più, ma per urlare tutta la mia immensa rabbia, anzi spero proprio che lo facciamo tutti insieme. Che senso ha difendere “l’uomo” se ne neghiamo la sua essenza?

Genzano di Lucania, ore 18,30 – Rocco Di Bono

Due mesi dopo la liberazione di Nelson Mandela, il 16 aprile 1990 al Wembley Stadium di Londra si tiene un grande concerto, che sarà il tributo internazionale per un Sud Africa libero ed al quale partecipano, tra gli altri, artisti come Anita Baker, Jackson Browne Lou Reed, Neil Young, Simple Minds, Tracy Chapman e Peter Gabriel.

Proprio quest’ultimo canterà una sua canzone, pubblicata pochi anni prima, nel 1986: ‘Don’t give up’ (Non arrenderti) sembra quasi che sia stata scritta proprio per raccontare la tempra di uomo e di combattente di Mandela. È una canzone toccante, dolce e forte insieme, resa ancora più intensa dalle splendide e particolari voci di Peter Gabriel e Kate Bush. Ed è una canzone importante, un grido di sostegno lanciato a chi si sente perduto, con un testo coinvolgente, ricco di esortazioni come “non arrenderti / non sei l’unico / non c’è nessuna ragione di vergognarsi” e “da qualche parte c’è un posto a cui apparteniamo” e ancora “hai ancora noi / non arrenderti / non sei ancora sconfitto”. Nell’attesa che la scienza medica trovi la medicina  giusta contro il coronavirus (ne stanno sperimentando tante, persino il resveratrolo, molecola antiossidante contenuta nell’aglianico), possiamo provare con qualche pillola di speranza. Come la canzone di Peter Gabriel, da intonare nei momenti di sconforto e di difficoltà, magari quando pensiamo di non farcela, oppure ogni volta che pensiamo che la vita non valga nulla: ecco, quello è il momento giusto per pillole come questa.

https://www.youtube.com/watch?v=VjEq-r2agqc

Matera, ore 18:30 – Doreen Hagemeister

“Pioggia”

Da bambina, quando pioveva, ho sempre pensato che il cielo stesse piangendo. Oggi è tutta una giornata grigia, triste e continua a piovere. Lentamente. Quasi senza interruzioni. L’acqua scende sul mio pino, e da lì cade fin giù, sulla terra. Anche gli uccellini si sono rifugiati, messi in salvo. Non si vedono, ma soprattutto manca il loro incessante cinguettio. La pioggia sparge silenzio. Sembrano lacrime. Le goccioline innaffiano i miei fiori. Ieri ho messo dei fiori proprio sotto il pino. Incrocio le dita. Quel posto per me è speciale. 

Sembra che il cielo condivida la mia malinconia. Sembra che pianga, per tutte le vittime del Coronavirus, ma anche per tutti gli esseri morti in questo periodo, molti in solitudine e nel silenzio, molti amati. 

Vorrei trovare parole nuove, ma piove, piove sul nostro amore” (Domenico Modugno)

Nel frattempo mi appaiono le previsioni meteo: pioggia incessante fino a sabato. Un lungo lutto. Un pianto liberatorio. 

C’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo” (Fabrizio De André).

La pioggerellina, in qualche modo, riesce a cullarmi, a farmi sentire meno sola. Guardo il cielo grigio. Ascolto il silenzio e ispiro quell’aria fresca, umida. Qualche goccia mi bagna il viso, i capelli. Osservo scorrere queste piccole goccioline che si fanno strada su di me. Li sento amici. Ammiro la loro testardaggine nel trovare un percorso, sicuri di sé stessi, per scendere sempre più giù, per arrivare fino ai miei piedi. E poi raccogliersi sul pavimento del mio balcone. E da lì continua il loro viaggio. Spazzano via la polvere e gli aghi di pino che si sono raccolti sulle mattonelle. Fanno pulizia. Mi puliscono l’anima. Ora c’è tanta acqua che si fa strada per raggiungere la grondaia. Tutte le gocciole, piante dal cielo, scendono insieme, allegramente, dallo scolo d’acqua fin giù sulle mie piantine. E il rumore che producono è melodioso. In qualche modo mi danno forza. Mi torna il sorriso, ancora timido. 

Decido di fare come loro. Devo proseguire sulla mia strada. Torno in casa e mi rimbocco le maniche. Per oggi nessuno mi fermerà più!

Chi desidera vedere l’arcobaleno, deve imparare ad amare la pioggia”(Paulo Coehlo)

Io amo la pioggia. È arrivata nel momento giusto. Il momento della riflessione e anche della tristezza. 
Sabato tornerà il sole. Sarà passata un’altra settimana. Sarà iniziato un nuovo mese. Avremo chiuso un altro capitolo per andare avanti.

Ce la faremo!

Non può piovere per sempre!” (Eric – dal film “Il corvo”)

Potenza, ore. 23:34 – Luca Rando

I giorni si susseguono uguali. Cambiano piccoli particolari, come il cielo, l’umore, le canzoni, ma per il resto un giorno vale l’altro. Anche se cerco lievi variazioni sul tema, un libro, una frase, un film, si accumulano le ore una sopra l’altra in modo inesorabile. E’ che la quarantena ha aggrovigliato i pensieri, ha affannato il respiro del cuore. “Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno in cui nulla accadrà”. E c’è un rumore di fondo che non smette mai, che anche quando vado a dormire gira e vibra tra i pensieri e mi sveglia d’improvviso di notte. “Please could you stop the noise?”.

Poi ci sono momenti in cui tutto ritorna calmo e tranquillo, come ora, in cui i pensieri vengono pettinati da una pace, da un sorriso e tutto trova il suo posto come in “un posto tranquillo, illuminato bene”. Ed aspetto con fiducia domani.

Lo steddazzu (Cesare Pavese)

L’uomo solo si leva che il mare è ancor buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,
e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.
L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.
Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.
Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende. 

Potenza, ore 23:00 – Claudia Schettini

Mi ero quasi abituata a ricevere il buongiorno dai raggi del sole che filtravano attraverso le tende. Una tazza di caffè in mano, gli occhi socchiusi, un po’ per il sonno un po’ per la luce, e il corpo avvolto da una piacevole sensazione di calore.

Stamattina sono rimasta un po’ delusa, nonostante le previsioni parlassero chiaro.

Profumo di terra bagnata, pioggerellina fitta e cielo grigio… un po’ come l’umore.

Ma no, non voglio farci troppo caso. Se inizio la giornata con il piede sbagliato chissà come arrivo a stasera. Meglio soffermarsi su altro, con la speranza che un po’ di positività venga a bussare alla porta.

Ma, pensandoci bene, chi ha detto che dobbiamo sempre sprizzare felicità da tutti i pori, essere sempre ottimisti e avere sempre un sorriso a 32 denti stampato sulla faccia?

É normale essere ogni tanto giù di morale, soprattutto se piove ed è anche lunedì. Ma forse il fatto che sia lunedì è che piova è solo un pretesto.

La verità è che stiamo tutti vivendo un terremoto emotivo che ci lascia nudi di fronte alla nostra vulnerabilità di ESSERI, e di ESSERE, umani.

La verità è che non ci siamo ancora resi conto di quanto sia importare restare in contatto con le nostre emozioni represse che poi, all’improvviso, si scatenano tutte insieme, mandandoci completamente in subbuglio.

Se solo le lasciassimo entrare dentro di noi, scrutandole pazientemente, accogliendole e smettendo di trascurarle, di trascurarci.

Se solo imparassimo a farci i conti, a comunicare con esse al posto di cercare unicamente di rendere le emozioni, quelle negative, più tollerabili e meno dolorose.

Se solo comprendessimo che la sofferenza, il dolore, la paura vanno elaborate e non represse.

Se solo cogliessimo questi lunghi giorni come una preziosa occasione per restare in noi o, meglio, ritornare in noi, per guardarci dentro, per ascoltarci, per guarire le ferite che, ormai parte del nostro corredo genetico, ci portiamo dietro da troppo tempo e che, a lungo, ci siamo illusi di poter ignorare e persino dimenticare.

Se solo facessimo tutto questo allora e, solo allora, il lunedì e la pioggia potrebbero essere un valido motivo di cattivo umore.

Se solo facessimo tutto questo, potremmo fermarci in tempo per evitare lo schianto.

Se solo facessimo tutto questo, riusciremmo finalmente a ritrovare la nostra umanità, il nostro essere fragili e vulnerabili, il nostro essere semplicemente e imperfettamente umani.

https://www.youtube.com/playlist?list=PLTnbehVW51PTcMSodQljAfkg7yNoZqbM0
LE STORIE DEL MARESCIALLO NUNZIOGALLO : LA MANO DEL DIAVOLO

Parte il primo esperimento di video racconto di TOTEM Magazine, Giampiero D’Ecclesiis & Fabio Pappacena vi propongono “LA MANO DEL DIAVOLO” della serie “Le storie del Maresciallo Nunziogallo”, per voi le prime sei puntate, da ascoltare e vedere con calma, un intreccio misterioso si svolge tra le strade del centro storico di Potenza, tra Via Pretoria e la Chiesa di San Michele si muovono ombre inquietanti, si sentono rumori, voci. Presenze oscure? Intrighi di provincia?
Ci penserà il Maresciallo Nunziogallo a svelare gli intrighi.
Chi sono i personaggi che si agitano nella storia? Demoni? Fantasmi? Sogni? Che succede nelle case di campagna dei potenti? Notai, avvocati, politici.
Un giro di ragazze squillo?
Da stasera per voi, su TOTEM Magazine. SEGUITECI , IL MARESCIALLO VI SVELERÀ OGNI SEGRETO
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